Tanto per dire


La tendina nera del posto telefonico pubblico

Ho sentito spesso persone della generazione prima della mia raccontare che un tempo, la sera, si andava tutti al bar del corso o a casa di qualche famiglia benestante del paese a guardare la televisione. Questo non era però un evento ordinario. Andare a vedere la televisione si qualificava come accadimento considerevole che si poteva ripetere solo in occasione di serate importanti, quelle in cui trasmettevano il "Festivàl" (sì, accentato) o qualche puntata speciale di "Lascia o raddoppia".
Questa era la "televisione in casa d'altri". E nessuno si preoccupava di non averla in casa propria.
Il desiderio di possesso di quell'elettrodomestico non sembrava, a quei tempi, turbare angosciosamente le esistenze dei nostri genitori e delle loro famiglie. Allora.
Esistevano dei privilegi, la televisione, il telefono.
Solo alcuni potevano usufruirne liberamente.
Altri dovevano aspettare l'invito, nel caso di un programma in tv, o il bisogno, nel caso di una telefonata urgente.
E non devo risalire a generazioni prima della mia per ricordare il Posto Telefonico Pubblico.
Io stessa rammento quando qualche adulto della mia famiglia mi portava con sé "a telefonare".
Un'esperienza tra il mistico devozionale e curiosità scientifica. La cabinetta telefonica era ospitata in una casa normale. La cabinetta con la tendina nera. Perché poi era nera? Non si doveva mica assistere a delle proiezioni là dentro!
Forse la tendina nera, o al limite bordeaux molto scuro, era posta lì a sottolineare la natura se vogliamo straordinaria e trascendentale dell'evento.
Non so perché ma quella tendina incuteva in me una sorta di rispetto estremo per l'atto che l'adulto che accompagnavo stava per compiere, telefonare, e per il mezzo che si utilizzava per eseguire quella funzione, il telefono.
Sì, ho proprio scritto "funzione": io, bambina, consideravo il momento dell' "andare a telefonare" al pari di una funzione religiosa, di quelle importanti però, che so, come la messa di Pasqua o quella di Natale. E sicuramente le messe di rilievo, nel corso dell'anno liturgico, superavano di gran lunga le telefonate che i miei genitori allora facevano.
La tendina nera o bordeaux poi contribuiva ad accrescere l'importanza di tipo spirituale dell'evento, ricordando sicuramente quella del confessionale.
Più tardi a quell'inutile separé di stoffa si sostituì una porta pesante, molto più adatta ad isolare le chiacchiere dei "telefonanti".
La cabinetta del Posto Telefonico Pubblico, in seguito, fu sostituita,  dalla Signora Cabina Telefonica, posta in uno spiazzo all'esterno, in genere nel luogo più frequentato del paese, sempre però in un angolo alquanto discreto.
E da quel momento finii di essere semplice accompagnatrice di adulti telefonanti per diventare teenager telefonante anch'io, con i miei gettoni e le mie duecento lire.
Intanto quello strano aggeggio con la rotellina spaziale si  era già posizionato sul comò del corridoio di gran parte delle famiglie italiane. Ma noi, adolescenti del tempo, preferivano le chiacchiere nella cabina, intervallate dal "tonf tonf" del gettone che scendava o dallo "stic stic", nel caso stessimo utilizzando la duecentolire.
Nei paesi, le cabine non sembravano affollate. Non era così in città.
Ricordo i tempi di Roma.
Nella capitale e nelle grandi città esistevano dei veri e propri piccoli "quartieri telefonici". Vi trovavano alloggiamento più cabine. Un paesotto di cabine, insomma. Accadeva spesso di dover fare la fila. L'attesa trascorreva fra il maneggiamento nervoso dei gettoni e un'orecchiata indifferente a quel che stava dicendo il telefonante prima di noi. Non perché avessimo veramente voglia di  ascoltare le sue  parole ma più che altro per ammazzare il tempo. E man mano che il tempo passava, ancor più lentamente se il telefonante di turno era impegnato in una chiamata urbana, lasciavamo cadere lentamente i gettoni uno sull'altro, dalla mano destra alla sinistra e viceversa, sperando che il "tonf tonf" o lo "stic stic" o ancora il "tonf stic" potessero far capire a quello prima di noi che era tempo di riagganciare.
Ecco, ora scrivo questi miei  ricordi con il pc, con l'orecchio attento al segnale dei messaggini del cellulare, quasi che quel che ho raccontato fosse riferito a tempi che non ho vissuto. E mi  chiedo: come abbiamo fatto a sopravvivere allora?
Lo crederanno i nostri figli che siamo sopravvissuti?
E cosa ricorderanno loro quando avranno la nostra età?
- Ricordi quando andavamo sullo spiazzo davanti al comune per agganciare il segnale wii-fii gratuito?
 -Ricordi quando siamo rimasti senza linea adls per due giorni? Da incubo!


L'ignoranza dell'approssimazione e della vanità



Odio l’approssimazione in tutte le sue forme: la disprezzo quando è voluta, non la considero quando, sebbene non cercata, è accettata. L’ansia di fuggirla mi assilla e mi danna. Non mi rassegno, tuttavia, a far di essa una ragione. Questa mia argomentazione può sembrare superba ed, in effetti, lo è. Se esser superbi significa tendere costantemente alla perfezione, in ogni momento, in ogni circostanza ed in ogni causa, posso dire di essere superba. Meglio superbi che approssimativi. Di gran lunga meglio. Se il mondo tutto, dalla sua nascita, non avesse mirato a perfezionarsi, l’umanità sarebbe rimasta nel suo torpore primordiale. Se qualcuno non si fosse impegnato a superare l’approssimazione nel procurarsi il cibo, oggi saremmo ancora con la faretra in mano; se qualcuno non avesse livellato lo strato di sassi sul sentiero sotto ai suoi piedi, oggi saremmo ancora con i talloni insanguinati, mentre con le braccia scanseremmo i rovi che ostruiscono il cammino e che nessuno, con superbia, si è mai preoccupato di ripulire. L’approssimazione è roba di tutti, della moltitudine impegnata esclusivamente a consolare le sue necessità primarie, il cibo, il freddo, la carnalità e la vanità. E la vanità, sì proprio quella, a mio vedere, si configura come l’esatta antitesi della ricerca della perfezione: il vanitoso è costantemente rivolto a dare immagine di sé come colui che si prodiga per il bene della comunità, preparando per essa banchetti insaporiti con l’inganno e con l’abbaglio, presentandosi con vesti luccicanti e con capelli inamidati. La moltitudine, affamata, gli crederà, accetterà di sedersi a quei banchetti, porterà in bocca quelle illusioni insaporite di vanità, riconoscendolo come proprio condottiero, dal momento che apparirà a loro come quello più capace di vestirsi e rivestirsi con la più stupida ostentazione del nulla. Fra quei molti, tuttavia,  ci sono sempre taluni sagaci e degni di rispetto, che seguono quella compagnia, nella speranza di poterla convincere ad aprire gli occhi e di mostrarle il vero bene che dev’essere perseguito. E quelle persone s’impegneranno sempre con coraggio e convinzione; è cosa nota, purtroppo, che, in mezzo ai molti, quei pochi buoni ed ottimi, sono destinati a perdere la loro peculiarità, riassorbiti dal comportamento negletto dei più. E questo è un dispiacere. I pochi potrebbero allontanarsi dai molti ma, spesso, talune condizioni non lo permettono. E, così, continuando a rimanere in quella schiera, saranno inevitabilmente destinati a perdere la saggezza che li contraddistingue. Le azioni di gruppo continueranno ad essere di pressapochismo e colui che è stato eletto a capitano, pur nella sua pochezza illuminata, saprà condurre quel manipolo disordinato, condannato all’approssimazione, allettandolo con promesse di miglioramento, facendogli credere di essere il salvatore della comunità, costringendolo, a sua insaputa e crudelmente, a favorire lui,  nella sua ascesa verso i lidi dell’ignoranza. E sarà semplice ottenere il consenso di quegli adepti, basterà farli sentire migliori, quasi come lui, importanti ed essenziali per tutti gli altri. E chi meglio può sentirsi essenziale agli altri se non colui che non si sente sufficiente a se stesso?

8 marzo 2013 - Oggi non voglio fare gli auguri


Oggi non faccio gli auguri alle donne perché non ho niente da augurare. Semmai avrei qualcosa per cui  sperare; più di una cosa. E sarei anche stanca di sperare, a dir la verità.     

Conduciamo bene i nostri impegni, sempre con cura e meticolosità: facciamo bene le mogli, siamo perfette come mamme, mai una virgola fuori posto, un calzino abbandonato o un nasino gocciolante, tanto il lavoro, quello vero, può aspettare. Dobbiamo essere mamme e pure femmine, prima di essere donne. Nessuno ci dice così, sia chiaro, ma, oh, come e quanto ce lo fanno capire! E noi rimaniamo ad aspettare ed, attendendo, invecchiamo fino a  quando, ad età più o meno avanti, prendiamo consapevolezza che avremmo potuto condurre meglio la nostra vita con il nostro impegno professionale se, tra i tanti,  quel giorno, ad esempio, ci fossimo arrabbiate davvero quando il viso di chi ci aveva appena convocato si è soffermato per qualche minuto a guardare il nostro ventre florido e, strizzandoci quell’occhio ottuso, ci ha detto quella frase che assillerà i nostri incubi notturni «Dobbiamo ricontrollare le graduatorie: le faremo sapere». Abbiamo capito allora. Ci siamo fatte furbe e la volta successiva abbiamo indossato un maglione, una maglia che non era nostra, presa in prestito dall’altro responsabile di quella floridezza e ci siamo presentate rigogliose, confondendo quell’unica abbondanza di ventre con una prosperità a tutto campo e, una volta ottenuta l’approvazione, abbiamo furbescamente esultato anche noi «Questa volta ti ho fregato!». In silenzio però.
Ma la pancia di una donna non è florida solo per nove mesi: quella cura che abbiamo messo allora, la metteremo decuplicata e molto ancora, per tutta la vita. E continueremo a rimandare il tempo del lavoro, quello che alcuni chiamano “lavoro vero” e che non ha niente a che vedere con le pappe, le tagliatelle e i pannolini. E verranno giorni in cui non sarà più  sufficiente indossare un maglione largo, si dovrà avere una scusa davvero plausibile per poterci permettere di gestire bene, contemporaneamente, gli affari dell’esser femmina e quelli dell’esser donna. E quando il telefono squillerà e sentiremo che avranno bisogno di noi e dei nostri studi di una vita, dei corsi e delle specializzazioni, per un’ora, un’ora sola, noi penseremo all’organizzazione di quella nostra mattinata, ai figli, alla piscina, alla danza e alle scarpette da lavare e capiremo come quell’ora, quell’ora sola, non ce la possiamo permettere. Impegni così provvisori non danno nessuna sicurezza: oggi quello c’è e domani chi lo sa.
E rinunceremo ancora.
Non possiamo godere illimitatamente di tutte le ore che vogliamo: la vita ce lo insegna e ce le toglie, a suo piacimento.
Non sono mai stata abituata a sputare nel piatto in cui si mangia.
Ora però lo faccio volentieri: la mia dignità è diventata improvvisamente più importante!

Pluviae crepitum amo


Pluviae crepitum amo quod hic vellicat cogitare atque lassitudines meas erigit. Tempus est requiescere.


Un sonno leggero


Vorrei un sonno leggero

di quelli che non fanno addormentare.
Vorrei un sogno sincero
e umile e candido,
un sogno che mi aiuti a ricordare.
Se dico “io”, ci sono,
se dico “tu”, lo vorrei,
se dico “noi”, resisto.
Ma solo fino a domani.

I capricci degli occhi



La mente corre forte,
quasi non la seguo;
il braccio risponde più lentamente
e gli occhi si adagiano a trovar riposo,
quando ancora nessuno li ha torturati.
Gli occhi,
memori forse delle fatiche di ieri,
di quelle di domani
non sanno promettere. …
E si annacquano
e gemono
i loro capricci non tollero.
Li carezzerei,
ho necessità immediata che si destino,
che diano inizio a questo giorno.
Non possono fallire,
non ora, non adesso.
Sfidano le mie ire,
mi mettono alla prova.
La mia mano destra a pugno
e passa e ripassa,
coccolandoli talora.
Un cucchiaio d’acqua me li rinfrescherà,
destandoli dal torpore della noia.

La sera del niente

La notte manca ancora,
il buio non è nero
e la stanchezza non ha ardimento.
Torpor non s’impossessa della mia vista,
dei dolori non mi piange nemmeno il braccio.
Troppo sicura per dormire,
di quietare il pensiero non mi  vien l’affanno.
Mi giro a cercare,
mi arrendo, non trovando.
E riprovo a scandagliare,
mi danno ma non mi inganno.
Provo a desistere, a volte,
m’impegno e mi convinco.
A cuor metter requie, no,
non mi assale necessità!
E ripenso alla sera,
a quella prima di questa notte.
E se questo buio, lo riconosco, è avvilente,
quella prima, sono sicura,
quella è stata… la sera del niente.

Riflessioni immotivate


Quella strana inquietudine

senza avviso e senza preavviso,
che ti farebbe chiudere le orecchie,
pur di non farti aprire gli occhi.
E quando quel canto
ti si infila nella ragione,
passando per le vie del conosciuto,
pur d’impossessarsi del tuo essere,
nessun tempo per fermarlo,
nessun’arma per combattere
trovi con te.
Ti fermi allora,
ti siedi.
Ormai paziente di nessuna pazienza,
aspetti.
Domani sarà dopo.

Pensieri fanciulli

Mi piacerebbe trascorrere qualche oretta, con i pensieri di una bambina, tornando indietro negli anni: guarderei il mondo degli adulti e, inconsapevole dei loro guai, avrei di che sorridere. Mi chiederei il motivo di questa loro serietà. E, per fortuna, non saprei darmi una risposta.

Tu e il tempo


Quando ti accorgi che il tempo scorre in fretta, metti in atto tutte le strategie per fermarlo: non ti trattieni a riflettere sulle ore né sui minuti, non pensi a quello che devi fare l’indomani, concentrandoti sull’immediato. Per non far fuggire il tempo, ancora più  velocemente, architetti una nuova intermittenza dei momenti della giornata, sfumando le pause di transizione di un colore poco definito, confidando nel fatto che un passaggio troppo brusco potrebbe far tornare la tua mente ad appuntare quei ritagli fra le lancette di una pendola.

Quando capisci che il tempo, il tuo, lo rincorri a vuoto, per non turbartene rovinosamente, fai l’indifferente e te ne infischi. Quel che rimane, lo sai, lo devi vivere, non come quello che è passato, no, ma come quello che verrà. E lo dipingi di rosa e lo dipingi di giallo e lo dipingi di rosso. Mai di tinta greve. E un po’ ti affanni, ma fai di tutto per non farlo capire, fischiettando in maniera indifferente. Tu sai che l’intervallo si riduce, quello che ti rimane, quello fra te e la sveglia della mattina.
Trascorri così la notte correndo per allungar quelle ore: tenti di indovinar le intermittenze, di soppesar gli impegni. E ti impegni a non angosciarti oltre.
Impegnandoti però a non ti angosciare, ti tormenti e, tormentandoti, ti affanni. Il circolo si farà vizioso, alternando l’angoscia al tormento, l’impegno all’affanno.
Quando il tempo più non basterà.

Quelle mattine


Quelle mattine dall’idea strana di inizio giorno, dal gusto di caffè poco definito, insieme con l’acre profumo della varechina. Tutto il resto, dalle finestre, pare affaccendato ma è lontano. Rimani dall’altra parte, con la tendina a mezza luce; i pensieri fanno a gara con le mani adoperate ad aggiustar la vita. E le mani non s’incontrano mai con quelle idee dinamiche e scattanti. E nel mentre, esse, le mani, si intrattengono sulle stoviglie, in maniera pressoché flemmatica, quelli, i pensieri, sono già usciti di testa, a rincorrere chissà quale venatura d’inchiostro, a comporre chissà quali arzigogoli di stile. Ti accorgi che sono scappati tutti e a nulla valgono i tuoi richiami all’ordine. Ormai le hai perse quelle tue idee. O forse le hai distribuite.

Ti asciughi le mani e riponi le stoviglie. Con fare deciso riapri la rubrica della testa, a contare ad uno ad uno i pensieri non più tuoi. L’affanno è vano, quelli sono già persi. O forse sono distribuiti. Una fantasia ti viene, immediata e istintiva: per richiamare quelli ti occorre musica. La musica la trovi, la trovi in abbondanza sempre.
Ti accorgi, infine, di aver dato alle note troppa confidenza: tu speravi di riportare all’ordine ogni cosa e quelle invece, pure le note, hanno preso la strada dei pensieri, perdendosi insieme ad essi e non tornando più. Forse hai distribuito pure quelle.
Quelle mattine…


Il pettegolezzo

Il pettegolezzo è la disfatta dell’intelligenza.
Il pettegolezzo uccide ogni esperimento di buon senso e di perspicacia.
È infido, ambiguo, è viscido da far ribrezzo.
Lo dico a chi di maldicenza si nutre e si circonda: smettete di vomitar malignità, di sorridere con sorrisi artefatti. Finitela di impossessarvi della fiducia di chi ve la offre, per poi girarvi dall'altra parte e tirare frecce avvelenate contro quella buona fede di chi si è avvicinato a voi. Falsi! Ipocriti!
Fra altri esseri superflui,  spendete le vostre inutilità. E fate gruppo e comunella, sbeffeggiandovi tra di voi, l’uno con l’altro, l’uno contro l’altro. Prima vi azzannate e poi vi sorridete, prendendovi in giro voi per primi. Teatranti di infimo rango!
Chi di pettegolezzo si bea non ha nient’altro che possa stimolare la sua amenorroica esistenza. Come potete occuparvi dei fatti altrui? Come potete soppesare le felicità di altri, misurare i loro godimenti, monitorandone costantemente la  durata e la consistenza? La spiegazione è una sola: le vostre soddisfazioni personali sono inesistenti. Per questo motivo cercate appagamento in quelle che non vi appartengono. Ma il furto è un peccato. E per il peccato si paga pegno.
Lo dico a chi farebbe bene ad occupare quel tempo inutile che si ritrova: cucinatevi le vicende vostre. Conditele con l’aceto dei vostri rimorsi. Saporitele con le spezie che avete lasciato nel vostro vasetto stracolmo di rimpianti.
Cucinatevi le vicende vostre. E poi digeritele, che l’indigestione delle vicissitudini altrui può far molto male, a volte

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