mercoledì 30 ottobre 2013

Halloween. Non sapete ma dovete.





Sincerità per sincerità: quante di voi, mamme, si ritrovano il 31 ottobre a dover affrontare quella insana voglia americaneggiante che, negli ultimi tempi, sembra essere diventata una festa obbligata anche nel calendario dei vostri figli? Obbligata, insomma, obbligo per obbligo, siete voi che ve la dovete sciroppare. Eh, sì, la prole ha deciso, quest'anno si festeggia, ehm, volevo dire si sbeffeggia la vita, con allusioni all'aldilà. Allusioni che però hanno deciso di consumare nello al di qua. 
E precisamente a casa vostra.
Eh, sì, vi tocca.

È già 31? E perché nessuno ve l'ha detto?? Le maschere arrivano stasera? Ma non è carnevale! Pure carnevale vi sta antipatico. Figuriamoci questa pagliacciata qui. 
Ricontrollate il calendario: sì è 31, senza scampo. Avete preso anche il pomeriggio libero per organizzare questa grande ca... questa camaleontica orgia di nasi adunchi e di cappelli appuntiti.
Vi tocca.


Fate un rapido sopralluogo: il camerone non arredato, di sotto, che di solito utilizzate per le feste e per i compleanni, va più che bene. Certo è un po' che non tirate via la polvere, visto che  è una stanza adibita ad usi esclusivamente di rappresentanza mangereccia e danzereccia, quando la compagnia è tanta. 




C'è polvere? Meglio! Non dovrete far pure la fatica di spargere la farina, sui mobili, per dare quel tocco di schifo in più. 
Farina? Ma quella non andava in cima alle montagne del presepe? 
Eh, sì, avete le idee confuse. Non è preoccupante, dovete solo farvi tenere sotto osservazione.

Ma ci penserete domani, raccomandandovi ad ognissanti.

Allora, la farina c'è, l'atmosfera pure. I nasoni e i cappelli da strega: utilizzerete quelli dell'anno scorso. 
Halloween in fondo è sempre una festa monotona. Comprati una volta, i cappelli, si riciclano all'infinito. Due segni sulla faccia e siete a posto. 
Sì, anche le mamme si coloreranno di nero il viso, sperando di coprire così le rughette d'espressione. Non aspettavano altro!
E siete cattive? Dovete esserlo ad Halloween!

Passiamo ai momenti di lutto, ehm, del pasto della consolazione.
Tiratevi su. Lo so, siete entrate nel panico. Uscitene, senza spolverare. Cosa si mangia in una sera come questa? Tranquille, sarà sufficiente riproporre i soliti cavalli di battaglia che presentate nelle feste di compleanno: pizze, pizzette, pasta frolla. Solo che le camufferete per l'occasione.





Le dita di strega sono il classico dolcetto di Halloween. Basta infornare della normale pasta frolla, modellata a forma di dito, applicando una mandorla all'estremità, a formare l'unghia.

Si possono farcire le pizzette, simulando le lapidi di un cimitero.






Via libera a muffin e biscotti neri. Non manchino mai i dolci monocoli che fanno tanto film dell'horror. 

Mi raccomando all'abbondanza di cioccolato: dà sempre quell'idea tetra di bontà proibita!

Concetta D'Orazio

domenica 27 ottobre 2013

E noi li fermavamo i nostri occhi. - Come nasce "Nero di memoria"

 

Dovevo scrivere. Lo sentivo. Dovevo scrivere per non dimenticare. E per non concedere oblio alle vicende di chi non c'era più.
Non ricordo quando fu la prima volta che iniziai a prender appunti, buttando giù, sui fogli di un blocchetto, tutte le notizie che portavo dentro da sempre, per averle sentite raccontare da quando ero bambina

La casa e la famiglia, il luogo dove si vive e la gente con cui si trascorre la propria esistenza, da quando, da piccoli, si inizia a prendere coscienza del mondo, finiscono inevitabilmente per diventare un pezzo della tua carne. Della famiglia di origine, genitori, fratelli e nonni, si ereditano persino i battiti cardiaci, arrivando, quando ormai si è grandi, ad avere pensieri e ricordi che si fondono con quelli di tutti i componenti. E si confondono.

Il ricordo che ho della parola guerra è quello che custodisco da mio nonno, classe 1912.
«Io ho fatto la guerra», lo ripeteva spesso, come un intercalare malinconico, quando voleva i nostri occhi compassionevoli. E noi li fermavamo i nostri occhi, su quel viso che era più triste delle parole che diceva.

Era triste il suo viso, sì, quando nonno fermava i suoi pensieri su quel ricordo maledetto.
«Mangiavo le scorce (bucce) delle patate, quando ero prigioniero. Perché io la guerra le so fatte (l'ho fatta)!», ripeteva a volte. 
E il suo sguardo diventava quasi di sfida verso noi nipoti bambini che ci permettevamo di rifiutare il cibo. Non volevamo mangiare? Che ci lasciassero a digiuno per un po' le nostre mamme. Una mezza giornata, bastava così poco tempo, diceva nonno, «A da vede' dopo coma se le magne! (devi vedere dopo come mangiano)», consigliava con furbizia alle nostre genitrici apprensive, aggiungendo «je le sacce come è la fame (la conosco la fame) perché je so fatte la guerra (perché ho fatto la guerra)!». E noi allora, pur di scansare ancora quel piatto di minestrina che non ci piaceva, pur di avere un ulteriore pretesto per tener lontano il momento della resa alla scodella di pastina, gli chiedevamo di raccontarci, per l'ennesima volta di come faceva a trovare le bucce, quando era prigioniero. 

Non capivamo quale significato avesse quel suo dirci prigioniero; quella era una parola ambigua, informe, lontana. Nonno la faceva sembrare misteriosa, la scandiva, respirandoci sopra. In noi bambini, in realtà,  non suscitava particolare interesse: conoscevamo quel termine per averlo sentito con una ricorrenza quasi quotidiana; non sapevamo cosa significasse essere "prigioniero" ma intuivamo che non doveva essere una cosa poi così entusiasmante. Facevamo bleah al pensiero di quelle bucce zozze che nonno diceva di aver mangiato e che, ci dovevamo fidare, erano buonissime. Quando c'era la fame, tutto era buono. 
E mangiavamo quella pastina, anche forse per il timore, che si mettesse davvero in pratica quel consiglio. Non lo dicevamo, ma io lo so, in fondo fondo, avevamo paura anche noi di essere costretti un giorno a rubare le bucce e a mangiarle di nascosto. Nonno era riuscito nell'intento.
E così a volte lui ci sembrava un eroe, quando lo pensavamo soldato di prima. Altre volte invece leggevamo il suo fardello di sofferenze passate. E allora nonno non pareva un eroe. Allora era semplicemente un uomo che aveva sofferto troppo. E che era stanco di soffrire.

Come nasce Nero di memoria
Le storie che avevo fatte mie, nel corso della esistenza, in quella parte della esistenza che è di prima vita, sono state il primo anello di collegamento al mio scritto. Queste storie però le custodisco solo grazie al prodigio del ricordo, prodigio che, ahimè, con il trascorrere degli anni, è destinato a perdere di intensità e ad esaurirsi.

Non ho mai pensato, quando avevo l'opportunità di poter segnare con certezza nomi, date, movimenti, di affidare ad un taccuino almeno i fatti essenziali, in maniera da non perderli con il tempo. Quando poi mi sono accorta che avrei dovuto farlo, non ho più potuto, essendo venuta a mancare la voce che poteva aiutarmi nella ricostruzione.

Per questo motivo, non ho molte notizie certe di quello che è accaduto al capostipite della mia famiglia, nel corso degli anni della Seconda Guerra Mondiale. Ho ricostruito le sue vicende, tentando di collegare le poche notizie che ricordo, molto frammentarie ed imprecise. La fantasia, per fortuna, è venuta in soccorso delle mie certezze mancanti.

Nero di memoria, perciò, non è la rievocazione della storia dei miei nonni: l'ispirazione ai loro racconti è stata poi condotta su una narrazione che prosegue con molta immaginazione

Il racconto ha la presunzione di far rivivere, negli episodi che lo caratterizzano, quegli anni tremendi, dopo l'armistizio di Cassibile, nel settembre del 1943.

La storia è quella di Antonio e Filomena: l'uno impegnato in prima linea e poi internato come prigioniero, l'altra a casa, a tentare di mantenere in vita, sfamando i bambini, quel nucleo famigliare che hanno voluto costruire insieme, in un tempo vicino eppur reso lontano dalle tragedie della guerra.
Amore. Passione. Sofferenza. Tragedia. Questo è Nero di memoria.


Concetta D'Orazio




mercoledì 23 ottobre 2013

Marmellata con uva Isabella o uva fragola






L'uva fragola, detta anche "Uva Isabella"è troppo dolce per poter essere gustata a fine pasto, come semplice frutto. C'è anche chi lo fa ma la gran parte delle persone non sopporta quel retrogusto eccessivamente caramellato.
La povera uva Isabella, ahimè, viene così utilizzata come semplice decorazione di ingressi, destinata a vita grama, attorcigliata al ferro battuto, in prossimità di cancelli, pronta a morire ineluttabilmente a fine stagione.
Anche la mia uva fragolina sarebbe finita così. Se non mi fosse venuta un'idea. 
Per carità non ho pensato nulla di originale, la marmellata di uva fragola è ampiamente conosciuta ed usata! Ma io arrivo sempre dopo, in parecchie cose.
Per salvare la mia povera uva Isabella, mi son rimboccata le maniche, ho tagliato tutti i grappoli e li ho accuratamente portati in casa, al risciacquo nel lavandino.

Passiamo ora a fare la marmellata.


Ingredienti.

- 1 kg uva fragola

- zucchero, 800 gr. circa
- due cucchiaini di cannella in polvere
- due bicchieri vino bianco
- 1 bustina di pectina


 
E ora passiamo  ad esaminare il procedimento.


















Lasciare cuocere nel vino bianco per circa 15 minuti.
Passare gli acini con il passaverdura.
Cuocere per altri 15 minuti.


Dopo aver lavato accuratamente i grappoli, occorre staccare tutti gli acini. Sì, lo so, ci vuole pazienza! Scolare per bene tutta l'acqua.









Aggiungere al liquido ottenuto lo zucchero e la cannella.




Aggiungere la pectina



Mettere nei barattoli precedentemente sterilizzati. 
I barattoli vanno tenuti capovolti fino al completo raffreddamento.









Nero di memoria



L'armistizio di Cassibile, 8 settembre 1943, segnò la fine delle ostilità fra l'Italia e le forze alleate.  Cosa accadde ai soldati italiani disseminati sui vari fronti? Ad essi fu chiesto di collaborare e  di continuare la guerra a fianco dei tedeschi. 

Drammatica fu la sorte di coloro che si opposero, dicendo "no!". Prigionia. Sofferenza. Morte. 

"Nero di memoria" è la storia di uno di quei soldati, Antonio, costretto a vivere da prigioniero, e di una delle tante donne italiane, Filomena

Antonio ora è un militare internato, un IMI. Nel campo di prigionia sopravvivere è difficile.

Antonio pensa alla sua donna, ai suoi figli. Ai due figli.
Filomena immagina il suo uomo, lo vuole vivo. 
Filomena custodisce i figli. I tre figli.

"Nero di memoria", è finalmente online.